Allora, io penso che nella vita a tutti può capitare di dire una cazzata, magari due. E dai, ammettiamolo, magari sta cazzata l’abbiamo detta nel momento più sbagliato dell’universo, nel luogo peggiore: ma avevamo un punto a nostro favore. Non eravamo microfonati, nè facevamo i cronisti di un evento sportivo di caratura internazionale. Guarda tu, a volte il destino gioca dei tiri beffardi. E invece è capitato che un fenomeno della cronaca sportiva abbia deciso di dar fondo a tutta la propria maschia superiorità sbeffeggiando un podista amatoriale intento ad affrontare una delle gare più impegnative del circondario. E passi che si sia sentito incredibilmente spiritoso, passi pure che abbia tentato un intrattenimento goliardico fuori dall’ordinario: ma ciò che non può
passare è che il bersaglio di quelle frecciate vigliacche (e senza possibilità di replica) era una persona. Una persona normale: uno che non è un keniano che corre come un ghepardo lanciato nella savana, nè un olimpionico pronto a misurarsi con un record mondiale. Trattavasi di persona, lo si ripete, dotata di caratteristica a molti sconosciuta: la dignità. La dignità dello sportivo, che accomuna tutti quelli che decidono di fare una fatica dell’ostrega per raggiungere un obiettivo e condividono con gli altri obiettivi, percorsi, emozioni e disfatte. La dignità dell’amatore appassionato, che sfida i propri limiti e si mette in gioco per tentare di scalare una montagna che, con il passare degli anni e spesso con l’aumentare dei panini al salame, diventa sempre più irta ma ugualmente ammaliante. La dignità della persona, che lo sport in genere tutela e rispetta, posto che ognuno è campione a modo suo e già vincere i propri limiti e superare i pregiudizi stolti (come in questo caso) dovrebbe assicurare il podio della vita. Chissà Marco cosa avrà pensato, mentre si appuntava quel pettorale alla maglia della propria squadra (che di certo non gli avrà consigliato di astenersi dal partecipare); mentre si lanciava nel freddo di quella mattina di febbraio nella corsa sullo sterrato difficilissimo (potrei dirvi, invece, con precisione cosa avrei pensato io se avessi avuto il coraggio di indossarlo quel pettorale, ma ci sono orecchi teneri che meritano di essere tutelati da cotanta trivialità). Chissà cosa avrà pensato quando gli hanno riferito le parole gentili ed i pensieri nobili con cui è stato descritto durante la competizione: sono pronta a scommettere che anche i cinque mulini si sarebbero fatti girare le pale se le avessero avute ancora!
Non so Marco: ma io mi sono davvero vergognata della situazione. Perché lo sport e chi crede nello sport non può tollerare tutto ciò: lo sport è democraticamente di tutti, figurarsi poi per la corsa, in cui gli accessori richiesti sono le scarpe, la strada e la fatica.
E come nella vita, si deve aiutare e sostenere chi ce la mette tutta, anche in assenza dei canoni atletici standard (e parlo ovviamente di me).
Il mio fotografo del cuore, esattamente come me, predilige chi arriva in fondo, nelle retrovie: sono proprio loro quelli che vincono, a dispetto dello scoraggiamento e del pregiudizio e con un’overdose di autoironia che spinge meglio della benzina. E sono loro quelli che vengono meglio in foto (e adesso domandatevi perché il fotografo gaglioffo è riuscito a farmi un book fotografico che neanche Naomi ce l’ha!).
Concludo dicendo, grande Marco che hai avuto il coraggio che a me è mancato. Perché i chili, con qualche sacrificio si possono perdere, mentre il buongusto è più difficile da acquisire se non è congenito.
In entrambi i casi, tuttavia, è consigliabile tenere la bocca chiusa per raggiungere l’obiettivo.
Mirta Marando
Sono stato direttore di una società ciclistica , aperta a tutti campioni ed anche ragazzi portatori di handicap. Grande Marco i miei complimenti.
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