“Milano ha una
polifonia di centri. La lista è lunga e la città sfuggente.” (Hans Ulrich
Obrist)
La Popina Pasolini ci ha interrogati, e la citazione a
memoria non la sapevo, perciò la riporto qui. Non la voglio più dimenticare.
Milano è fatta di chi la abita e chi la abita siamo noi.
Non sapevo come sarebbe andata, perché ogni novità è anche un po’ incognita, lo
dice la parola, ma ce l’avrei messa tutta. Ho trovato il mio centro di gravità
nei bambini. Come venditrice valgo meno di zero, ma come imbonitrice di circo
non mi batte nessuno, e questo ho fatto: ho schiamazzato per i corridoi
raccontando a tutti che “io andavo a ballare” perché era quello che stavo
facendo, e la cosa è stata contagiosa.
facendo, e la cosa è stata contagiosa.
I bambini sono meravigliosi, non chiedono altro che
essere guidati, presi per mano e condotti con allegria. Magari non ascoltano le
parole, ma seguono l’esempio.
Credo che ieri sera si sia dato un esempio.
Mostrare invece che teorizzare.
Gli adulti, poi, impareranno dai loro figli, ne sono
certa.
Abbiamo seminato qualcosa che darà frutto. Abbiamo
deposto in questi piccoletti il seme di un modo di essere “diversi” essendo
tutti uguali. Non serviva dirlo, né scriverlo, è bastato farlo. Probabilmente
loro lo sanno già, visto che sono tutti così diversi, e così abituati a
esserlo, quello che hanno visto ieri è la gioia di essere davvero “insieme”,
disegnare, imparare, giocare, ballare, e anche i grandi erano tutti lì, tutti
insieme, a condividere il momento. Ciascuno un pochino oltre il solito modo di
vivere, le solite barriere invisibili, i soliti schemi.
Tutti quei visini contenti avevano solo una gran voglia
di giocare, ma erano anche stupiti di questo evento strano, di una festa piena
di così tante attività, tutte da scoprire. Li ho visti saltellare da una stanza
all’altra, avanti e indietro, instancabili, tra la sala del disegno e del
PlayArt alla palestra dove si ballava, li ho visti uscire dall’aula di pratica
filosofica per fiondarsi al calcetto. Non ne ho visto neppure uno fare mezzo
capriccio, né tantomeno piangere. I più timidi magari guardavano solo, curiosi.
E così i loro genitori, qualcuno avrebbe voluto giocare, ballare e disegnare,
qualcuno magari lo ha pure fatto. C’era tanto da vivere, tanto da assorbire,
tanto da condividere.
Io ho lasciato che la musichetta infantile mi scegliesse,
e lì sono rimasta, fino a sfiatarmi di salti e zompi, con puntate sistematiche
al banco della birra, saluti e bacini agli amici body-borse-guard..., al
banchetto merchandising, un salutino alla mia pargola che sfavillava in mezzo
alle torte, tutta sorridente. Le avevo detto:”Vieni, il modo migliore per
essere contenti è fare qualcosa per gli altri”, e lei mi ha seguita.
Questo è il vero fulcro di ciò che questa esperienza mi
ha trasmesso. Esserci e dimenticare se stessi. Trascendere il sé, ed essere il
“tutto”, l’insieme. Da fuori eravamo quelli con le pettorine fosforescenti, da
fuori eravamo i volontari, e loro, adulti e bambini, si sono affidati a noi,
col sorriso. I nostri nomi qualcuno li ricorderà, ma non hanno importanza,
Tizio, Caio e Sempronio, noi eravamo lì per loro, e con loro, e ci siamo messi
da parte, come persone singole, per essere qualcosa di “più”. Così l’ho vissuta
io. Oltre me stessa, senza me stessa, solo il fare ciò che facevo, perché si
spandesse il contagio, fosse anche solo in un sorriso, un un faccino che si
illumina.
La caratteristica centrale del nostro partecipare è che
non ha etichette, non ha colori, non ha credo, non ha nome, non si definisce se
non nell’essere presenti, e nel fare. É
qualcosa di così naturale, in fondo, quasi ovvio, così facile da fare, che non
lo so definire, chi era lì, sa di cosa si è trattato.
L’unica moneta che abbiamo da spendere in questa grande
città siamo noi stessi, l’unica paga che riceveremo è un ciao detto con
nostalgia, un sorriso, una stretta di mano.
Laura AmisanoLE FOTO DELLA SERATA
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