27 giugno 2012

Noi la Monza-Resegone la vinciamo così… - di Noemy Gizzi

Nell'ultimo periodo si fa un gran parlare di SQUADRA, SPIRITO DI GRUPPO, AFFIATAMENTO.
Dopo i Mondiali di 100 km di Seregno, le principali testate giornalistiche del settore hanno dedicato pagine e pagine a questi argomenti.
Pietro Trabucchi ha incentrato il suo ultimo (bellissimo) libro “Perseverare è umano” su questi concetti.
A proposito delle competizioni dove conti un risultato a squadre, non è raro sentir ripetere frasi  del tipo: “l’importanza di correre per il gruppo”, “l’orgoglioso attaccamento alla maglia della Nazionale”, “lo spirito di abnegazione che porta a mettere da parte le proprie aspirazioni personali e a sacrificarsi per la squadra”.
Non me ne voglia Trabucchi, ma io, da individualista incallita quale
sono, faccio un po’ fatica ad interpretare certi comportamenti come espressione di spirito di squadra. Chi sviene e, stoicamente, si rialza, riparte e finisce la gara, lo fa per se stesso, perché “perseverare è umano”, perché in quella corsa ci ha investito tutto, e non può sopportare l’idea di ritirarsi. È giusto che sia così: tornare a casa e guardarsi allo specchio essendosi ritirati è una delle peggiori esperienze che un runner possa sperimentare e mina la stima che ciascuno ha di sé. Evidentemente, non la pensa così chi invece si ritira perché non riesce a seguire la tabella di marcia che si è prefissato, o a capacitarsi di fare così tanta fatica (proprio io?). Un modo diverso di intendere la corsa, ma sempre sinonimo di individualismo è.
Allo stesso modo, pensare di cementare un gruppo, facendo passare un po’ di tempo insieme ai suoi componenti, magari coinvolgendoli in improbabili evoluzioni su un ponte tibetano, lo reputo molto illusorio, quasi ingenuo. 
Cosa c’entra tutto questo con la Monza-Resegone?
C’entra eccome! Più di una persona sostiene che io non abbia EMPATIA verso gli altri, che sia tremendamente selvatica e asociale, un’individualista con uno spirito di competizione al limite del pericoloso. Tutto questo (purtroppo o per fortuna?) è vero.
Eppure con Monica e Francesca c’è un feeling speciale. A guardarlo da fuori, il nostro è un rapporto assolutamente “normale”: andiamo d’accordo, ogni tanto ci sentiamo, condividiamo la passione per le ultra-distanze, abbiamo vestito insieme la maglia della Nazionale, ma non si può certo dire che siamo amiche nel senso più stretto della parola. Ma qualcosa di unico c’è.
Quando 2 anni fa Monica si è ritirata al Mondiale di Gibilterra, io alla fine della gara, pur avendo fatto la mia migliore prestazione di sempre, ho sofferto e pianto per lei (e abbracciata a lei) come se fosse successo a me. È stata l’unica volta in cui, sinceramente, sono riuscita a mettermi nei panni di un’altra persona e a vivere il suo stesso dolore. Ne sono rimasta stupita, e ho provato un sentimento che mai dimenticherò.
Quando invece, l’anno scorso, io e Francesca ci siamo ritirate al Mondiale di Winschoten, ci siamo ritrovate a piangere insieme, strette in un abbraccio doloroso ma ugualmente bellissimo. Entrambe ci credevamo, avevamo investito tanto, sapevamo di aver fatto il massimo, eravamo animate da tanti bei sogni. Invece, con il ritiro, tutto svanito e tutto da rifare.
Con loro si è quindi creato un legame di forte condivisione, che va ben oltre il tempo trascorso insieme. Non riesco a pensare a nessun altro con cui potrei correre la Monza-Resegone. L’abbiamo vinta per due anni di fila, e questo è grandioso. Non tanto per il risultato in sé, ma perché in entrambe le occasioni, quando c’è stato da stringere i denti perché io sono andata in difficoltà, loro due lo hanno fatto senza battere ciglio, mettendosi in gioco al 100% e vivendo la mia crisi come se fosse la loro. Quest’anno, poi, tanto più che rientravo dopo un lungo stop, loro sapevano benissimo che sarebbe stata più dura del previsto. Ma MAI me lo hanno fatto pesare, né quando le ho chiamate per dire: “Ehi, ragazze! Anche quest’anno ci sono!”, né in gara, quando capivano benissimo, per via del mio silenzio, che sarei andata in crisi molto presto. 
“Riuscire a diventare un unicum”, forse è questo il segreto per essere squadra fino in fondo. Riuscire a sviluppare una tale sintonia di intenti, che quando la tua compagna in gara ti grida cattiva: “Ma che cazzo di ultramaratoneta sei?!?”, tu senti che le vuoi un bene dell’anima, e che in quel momento, nonostante la fatica, non vorresti essere con nessun altro, da nessuna altra parte.
Ecco. Se Trabucchi mi chiedesse un consiglio, io i più “recalcitranti”, gli individualisti più sfegatati, li porterei a seguire (prima ancora che a correre) la Monza-Resegone. Li posizionerei a Calolzio, e da lì farei in modo che seguissero la lenta salita di tutti, soprattutto delle terne nelle retrovie. Farei in modo che vivessero in diretta l’esperienza di chi avanza bestemmiando per la fatica, spingendo ed incitando i compagni, fermandosi per i crampi ma poi ripartendo. E anche quella di chi accetta serenamente, seppur con le lacrime agli occhi e la rabbia nel cuore, di fermarsi quando un compagno alza bandiera bianca. “Salti tu, salto io”.
Che strano – si potrebbe pensare – può mai una sola notte racchiudere così tanti insegnamenti?  Sì, perché, in fondo, non è una notte come tante altre, è la notte della MO-RE. Chi l’ha vissuta, da protagonista o spettatore, lo sa bene e se la custodisce gelosamente, non fosse altro perché ci ha lasciato un pezzettino di cuore.
Noemy Gizzi
>>>le foto
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1 commento:

  1. Io,e due miei amici un mese fa abbiamo deciso di correrla l'anno prossimo...ora che ho letto il tuo post siamo ancora più convinti della nostra scelta!
    Complimenti davvero per la gara e per quello che hai scritto.
    Kikko

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